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PANGEA Numero 1 Anno 2019
Lezioni di lavoro. Sicurezza e insicurezza
Pietro Jarre, ingegnere
A gestire i rischi della vita si impara dai genitori, dagli amici più grandi, dai capi che danno l’esempio. Meglio si
racconta il tutto, più forti sono le emozioni che si generano, più si impara.
I medici da molti decenni fanno i gruppi Balint, e discutono delle loro esperienze professionali; non solo gli psico-
terapeuti, che hanno sistematiche sessioni di supervisione con colleghi senior, ma anche i praticanti negli ospeda-
li. Non tutti le fanno, ma chi partecipa ne ricava grande beneficio: l’esperienza collettiva – pare banale dirlo – è
ben più ricca di quella individuale. E le storie degli altri – sin dai primordi dell’umanità – sono il miglior strumento
per la gestione del rischio. Il che non è proprio poco!
Credo dunque fermamente che sia utile condividere tra noi storie vere e autentiche di esperienze di lavoro, e an-
che per questo è nata PANGEA. Storie da raccontare e ascoltare con calma, come fossimo a tavola, su
cui riflettere, in modo che diventino parte di noi, della nostra coscienza professionale. Nulla a che vedere con
post sincopati e due like sveltini su un social.
Da giovane ingegnere coi colleghi non parlavamo che per veloci battute scaramantiche delle esperienze di cantie-
re, di sicurezza, mentre si parlava fino alla noia di modelli, numeri, metodi, soluzioni. La mancanza di sicurezza e
della sua cultura, l’insicurezza, erano però dovunque, negli anni ’80, “tutt’intorno a noi”.
Da giovane praticante ingegnere nei primi ’80 ogni mese salivo al Monte Rolei e per giorni facevo misure agli in-
clinometri terebrati nella discarica della Amiantifera di Balangero, con gli stivali affondati nel fine “sterile”. Gli
stivali erano coperti di bianco polverino asbestifero. Come misura di prevenzione per il mesotelioma pleurico, al-
lora negato dai dirigenti ma noto a tutti gli altri e al loro silenzio, non portavo quegli stivali in casa, li lasciavo in
macchina.
Così facevamo e imparavamo dai capi, così andavano i racconti ... e così accadde che mi ruppi un mignolo del
piede con 20 chili di deformometri in acciaio caricati di fretta in una mia valigia dal manico fragile, anziché in una
cassa rinforzata fornita dal datore di lavoro e imbarcata come si deve in stiva. Ma neanche ci pensavamo che non
avremmo dovuto essere in ritardo, che non avremmo dovuto usare il bagaglio a mano, che avremmo dovuto fer-
marci e riflettere, taking a five come si dice in gergo. Il mignolo, rotto a Caselle, lo infilai nello stivale in cantiere
all’Agri. Ci lavorai dentro tutto il giorno, e alla sera dovemmo tagliare la gomma per togliere gli stivali.
La pratica di allora era di insicurezza, poi avvenne il cambiamento con l’ingresso delle donne negli uffici, l’applica-
zione delle norme ottenute grazie alle proteste operaie nelle fabbriche, la internazionalizzazione e l’influenza an-
glosassone nel nostro lavoro.
Appena entrato in Golder nel 1990 venni spediti in Inghilterra per 5 giorni di training nell’uso di tute protettive,
delle maschere antigas, a prendere un certificato OSHA. Nessuno mi lasciò toccare un campionatore, un provino,
un serbatoio, prima che facessi il corso. Lavoravamo per le più grandi società minerarie e petrolifere del mondo,
e quelle esigevano totale attenzione per la sicurezza da tutti i loro fornitori. Essere in compliance” era solo la ba-
se, la condizione necessaria e NON sufficiente, si trattava invece di ragionare rispetto alla sicurezza in ogni mo-
mento del lavoro.
La sicurezza del tuo equipaggio dipende dalla distanza della terra che vai cercando oltre il mare, dalla rotta che
segui, dalla capacità tua di gestire il rischio. Poi conta anche l’ordine in plancia, la pulizia del ponte, il calore del
pasto della cena. Conta l’attenzione di ogni momento, appunto.
Diventato uno dei dirigenti, avevo imparato a tenermi al mancorrente delle scale, perché è intelligente – il man-
corrente c’è per quello, lo sapevate? – e perché da capo tu dai l’esempio, e non puoi certo pretendere sicurezza
dagli altri quanto tu pratichi insicurezza.
Dunque ero cambiato, e spesso facevo ispezioni e verifiche in cantiere. Se potevo entravo da un lato, controllan-
do se le recinzioni fossero salde e sicure. Mi presentavo davanti ai nostri giovani ingegneri, e guardandoli negli
occhi dicevo: guardami negli occhi, non distogliere lo sguardo. E adesso dimmi, guardami. Dimmi. Cosa c’è sopra
la tua testa? Hai visto il cavo elettrico? No non girare il capo. Quelli si agitavano, e io incalzavo: dove è il tombino
di fianco al tuo piede?
Il cavo non c’era, ma loro non ne erano mai del tutto sicuri. Sapevo cosa pensavano, sapevo che si sarebbero
ricordati di quel capo stronzo che li aveva fatti sudare di paura, sapevo che ne avrebbero parlato tra loro a tavo-
la, lo speravo in effetti, e non mi importava se di me si fossero ricordati solo quello, ma da vivi.
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