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PANGEA Numero 4 Anno 2020

             Vi sono infine i consulenti che sono, per vocazione, portati ad assecondare il proprio committente e quindi so-
         no disposti ad assumere posizioni, anche solo piccole inflessioni, diverse a seconda che siano periti del Giudice, con-
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         sulenti del Pubblico Ministero, dell’avvocato e della parte civile .
             Bisogna essere avulsi dalla realtà per non vedere questo stato di fatto. Affermare che i consulenti nominati dai
         Pubblici Ministeri consegnerebbero al Giudice un prodotto più affidabile, perché, per proprietà transitiva, sarebbe
         applicabile anche agli stessi il dovere di ricercare elementi di prova anche a favore dell’indagato ai sensi dell’art.
         358 c.p.p., significa davvero muoversi su un territorio del tutto teorico. Virtuale potremmo dire.
             La verità è che esistono persone serie e persone poco serie, anche nell’ambito dei consulenti tecnici che opera-
         no nel processo penale. Esistono quelli bravi e quelli meno bravi; quelli più sensibili all’ambiente e quelli più sensibi-
         li alle esigenze delle imprese; quelli più sensibili alla toga del Giudice e quelli più sensibili ai cordoni degli avvocati.
             Questi consulenti sono chiamati ad un compito delicatissimo, per il semplice fatto che, nella grande maggio-
         ranza dei casi, il Magistrato che li ha incaricati non ha un bagaglio culturale e di esperienza nella materia specifica
         tale da consentirgli un’analisi critica delle tesi proposte dal consulente, con la conseguenza che, nella quasi totalità
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         di casi, si appiattirà sulle conclusioni formulate dal tecnico .
             Ecco che allora l’attendibilità dovrebbe essere valutata sulla pelle del consulente e non sulla pelle di chi lo ha
         nominato (accusa / difesa).
             Purtroppo, l’opinione espressa dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame non è isolata.
             Qualche anno fa, un’altra Sezione, ha avuto modo di affermare che “Il tema dell’attribuzione di <priorità> delle
         conclusioni assunte dal consulente tecnico del pubblico ministero rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della
         difesa involga, più in generale, la discussione sulla natura stessa dell’organo dell’accusa e del suo diritto/dovere di
         ricercare anche le prove a favore dell’indagato come stabilito dall’art. 358 c.p.p. Se è vero che il consulente viene
         nominato  ed  opera  sulla  base  di  una  scelta  sostanzialmente  insindacabile  del  pubblico  ministero,  in  assenza  di
         <contraddittorio> e soprattutto in assenza di <terzietà>, è tuttavia altrettanto vero che il pubblico ministero ha per
         proprio obiettivo quello della ricerca della verità – concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in
         fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza ed imparzialità – dovendosi necessa-
         riamente ritenere che il consulente dallo stesso nominato operi in sintonia con tali indicazioni”. (Cass. pen., sez. II,
         24 settembre 2014, n. 42937).
             Tale asserto non trova modo di essere condiviso: si dovrebbe guardare alla caratura del professionista e non al
         fatto che chi lo ha nominato appartenga o meno alla Magistratura.
             La inverosimiglianza di quanto affermato dalla Corte di Cassazione si coglie in modo palmare da una semplice

         considerazione che viene espressa in forma di domanda: se un consulente, quando nominato dal Pubblico Ministe-
         ro, viene davvero investito da questo garantismo che lo induce ad applicare l’art. 358 c.p.p., come si dovrebbe com-
         portare lo stesso consulente allorquando venga, ad esempio, nominato dalla parte civile? In questo caso, seguendo
         il percorso intrapreso dalle sentenze in esame, potrebbe impegnarsi nella prova dell’accusa, ignorando del tutto
         (anzi, magari, spingendo sotto il tappeto) le prove a favore, perché non gli sarebbe riferibile l’art 358 c.p.p.. Ovvia-
         mente, qualora lo stesso consulente venisse nominato dalla difesa, dovrebbe indossare un vestito ancora diverso e
         considerare soltanto le prove a favore (e magari usando sempre la tecnica del tappeto per le altre).
             Sarebbe troppo facile scomodare principi cardinali come il “giusto processo”, la “parità delle parti”, “in dubio
         pro reo”. Ma sono parole troppo alte per essere usate in questo contesto.


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          Questo compito è del pari delicato, anzi, probabilmente molto più delicato con riferimento all’attività della polizia giudiziaria.
         Infatti, gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria non sono consulenti ma testimoni e quindi il loro apporto nel processo ha un
         valore molto più alto, ontologicamente più alto.
         Si usa dire: il teste espone solo fatti; i consulenti e i periti esprimono valutazioni.
         Ma solo chi vive sulla casa sull’albero può negare che quando un Maresciallo dei NOE parla di codici CER, di caratteristiche di
         pericolosità, quando interpreta un’autorizzazione, in realtà esprime vere e proprie valutazioni; valutazioni mascherate da fatti.
         La stessa cosa fa l’Ispettore dello Spresal quando indica quali sarebbero le violazioni antinfortunistiche riscontrate come causa
         di un infortunio sul lavoro. Si continua a considerarli come testimoni ma, in realtà, l’apporto che gli stessi forniscono al proces-
         so è di natura prevalentemente valutativa.
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          «Posso permettermi di farle una domanda?… Poi gliene farò altre, di altre natura… Nei componimenti di italiano
          lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?».
         «Perché aveva copiato da un autore più intelligente».
         Il magistrato scoppiò a ridere. «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran
         guaio: sono qui, Procuratore della Repubblica…».
         «L’italiano  non  è  l’italiano:  è  il  ragionare»  disse  il  professore.  «Con  meno  italiano,  lei  sarebbe  forse  ancora  più  in  alto».
         La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio.
         (SCIASCIA, Una storia semplice, 1989).


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